[CONTEST LETTERARIO] Mammax vs Oplomacus

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    Non mi sento nella posizione di poter esprimere un giudizio tecnico :D, ma mi sono permesso comunque di votare, esprimendo un giudizio che tiene conto più dei miei gusti sullo stile che sulla storia in se. Complimenti ad entrambi comunque!
     
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    CITAZIONE (Nik3004 @ 8/11/2019, 16:23) 
    adoro la spruzzata

    :giancarlo:
     
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    Grazie a tutti! A fine contest io e Oplo risponderemo nel merito. Per adesso rimaniamo sotto copertura :ph34r:
     
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    CITAZIONE (Muhammax Ali @ 9/11/2019, 12:17) 
    Grazie a tutti! A fine contest io e Oplo risponderemo nel merito. Per adesso rimaniamo sotto copertura :ph34r:

    Bel film :pallotta2:
     
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    Io ho votato “verso il sole”
    Gusto personale, entrambi ben scritti.
    Ho l’impressione che non fosse il genere prediletto da nessuno dei due.
    A fine contest che ne dite di farci “indovinare” l’autore di ogni racconto prima di svelarvi?
     
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    <<27 maggio 2019, eppure il vento soffia ancora>>

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    Anche io ho votato "Oltre il Sole".
    Ho adorato la scrittura, mi ha fatto immergere in pochi attimi nell'ambiente, senza difficoltà, e credo che un romanzo che vuole chiamarsi storico ricerchi soprattutto un immersione anche visiva immediata.
    Ma voglio complimentarmi con entrambi, veramente notevoli

    Edited by MattewInFlames - 12/11/2019, 13:21
     
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    CITAZIONE (RomoloGialloRosso @ 10/11/2019, 13:53) 
    A fine contest che ne dite di farci “indovinare” l’autore di ogni racconto prima di svelarvi?

    Perché no? ;)
     
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    Grazie!

    Certo, ok RomoloGialloRosso :)
     
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    Aggiornamento:

    Possiamo considerare chiusa la votazione per quanto riguardo il primo round, che vede vincitore, seppur di un solo punto, "Oltre il Sole".


    Ora si riparte da un altro genere, ovvero, il Drammatico! :)

    Muhammax Ali Oplomacus
     
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    Si riparte col botto! Molto bene.
     
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    Bella regà, buone feste a tutti! :asd:
     
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    Perbacco, qualcuno sta latitando qui :shifty:
     
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    I racconti sono pronti, Giulio li caricherà a breve.
     
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    SECONDO ROUND, QUELLO DRAMMATICO! :tunz: Buona lettura, come al solito. (vi ricordo di votare dal sondaggio in alto nel topic)

    I due racconti:

    ACQUA E FUOCO



    Il tempo sembra passare lentamente ma giunto a questa età sono i più i giorni da ricordare, invece di quelli che riesco a prospettare. Dopo Catherine non ho mai più provato amore. Ero giovane, avremmo potuto costruire un futuro insieme. Invece, oggi, il presente lo trascorro tra un cubano e un liscio. Non male, ma inizio a pensare che sia tutto una scusa per continuare a vedere e ascoltare Hanna. Il suo swing è celestiale, le sue dita volano sul pianoforte come petali mossi dal vento e la sua voce mi fa tornare adolescente. La clessidra titanica di Crono si arresta ogni volta che vivo questi momenti ma una volta conclusi riparte al doppio della velocità. Non me ne frega più niente di collezionare donne come figurine, come trofei, solo perché cercano un uomo rude per una notte, insoddisfatte, al pari e probabilmente più di me. Hanna ha fatto risvegliare in me passione e sentimenti sopiti da parecchio. Il crollo delle Torri Gemelle, l’episodio che ha cambiato le regole del mio mondo e di quello esterno, è avvenuto ormai quasi quarant’anni fa, quindi direi che è ora di una nuova svolta. Frequento lo stesso locale da un lustro e ho scoperto dove abita Hanna quasi subito. Facile con il web e i metodi moderni, soprattutto quando si è veterani ricognitori. Però, mai prima d’ora avevo realmente sentito la necessità di incontrarla e parlarle; un po’ per abitudine, un po’ perché manca dal locale da ben quattro sabati. Il fine settimana, senza di lei, ha meno senso.
    Domattina la affronterò.

    Ovviamente piove, come sempre. Con l’ombrello copro a fatica la mia schiena e cerco di salvaguardare l’integrità dei fiori. Ma si usano ancora i fiori? Non lo so. Mi pongo domande, forse troppe e forse inutili, mentre percorro il vialetto di casa di Hanna. Non sono più avvezzo alle romanticherie. E se non apprezza? Cinquecento metri, riecco il vizio di tenere il conto. Cosa le dico? “Ciao, sono il guercio del locale”? Quattrocento. Mi beccherò uno schiaffo, sicuramente, chi sono io per invadere la sua privacy? Tre. Mi fermo un attimo, sistemo come posso il vestito e controllo che sia tutto in ordine, senza la reale necessità di doverlo fare, poi riprendo il passo. Due. Cerco di mettere a fuoco la casa tra le gocce che cadono intense, c’è qualcosa che non va. Cento. È
    abbandonata, cazzo! La macchina non c’è, il giardino non è curato e le tapparelle a mezza altezza
    lasciano intravedere un ambiente messo male. Corro a perdifiato verso la porta. Busso. Nessuna
    risposta, come mi aspettavo. Grido il suo nome. Niente, non c’è nessuno qui. Lascio cadere
    l’ombrello e il mazzo sull’uscio e mi precipito verso il retro, noncurante del bagnato. Raggiungo
    affannosamente l’entrata posteriore e mi accorgo con dolore e rassegnazione che è stata già
    scardinata. Apro leggermente e osservo l’interno dell’abitazione, scorgendo una serie di impronte
    fangose e polverose che ne fanno presagire il triste destino.

    – Giovanotto! – Mi volto verso la voce che mi sta chiamando e intravedo un’anziana signora alla finestra. Credo sia la vicina ma questa pioggia incessante la rende appena visibile. – Sì, dico a te! Se n’è andata da almeno un mese. Senza valigie, solo uno zaino, e via in macchina. I suoi profili sono inattivi e al telefono la linea è interrotta. Nessuno sa nulla e la polizia non l’ha trovata. Era rimasto tutto in casa, prima dell’arrivo degli sciacalli. Devi sapere che… – Grazie per il “giovanotto” ma non erano affatto le conferme che volevo sentire. Me ne vado mentre la vecchia continua a pronunciare parole mute nella mia direzione. Ecco, proprio ora mi accorgo che tabacco e alcol erano effettivamente una scusa. Non mi vanno più. Non mi va più niente. Se n’è andata, non so dove, non so con chi, non so perché. So solo che è definitivo. Spero stia bene.

    Rumori, voci e suoni si confondono nella mia mente, mentre cammino senza meta sotto la pioggia battente. A malapena mi reggo in piedi. Ottundimento totale. Vorrei proprio che la mia ex moglie sia ancora in vita. Non merita niente ma, chissà, mi avrebbe potuto ascoltare ed eventualmente comprendere. Nemmeno lei, da quanto so, si è davvero rifatta una vita. Magari la sua condizione si sarebbe evoluta diversamente se quell’androide difettoso non l’avesse uccisa. O se non mi avesse lasciato, stronza. Eppure, non riesco a odiarla. D’altronde, mi ha aiutato a mettere al mondo Jenny, la mia piccola, ma anche lei sparita dalla mia vita. Questi primi androidi sono una creazione sua e del fidanzato. Stanno dividendo l’opinione pubblica, visto inoltre quanto costano. Fanno del bene
    ma a volte fanno del male: il caso di Catherine non è l’unico. La sola certezza è che il lavoro l’ha portata via da me. O perlomeno mi piace pensare che sia quella la motivazione. Comunque, sto vaneggiando. Sono confuso, provo sensazioni contrastanti, ho perso la cognizione dello spazio e non ho più alcuna sensibilità verso i fabbisogni primari. Non devo pisciare, non sento la fame, il sonno, la sete e la fatica. Non so più chi sono, né cosa voglio. Ma so che non ho più nessuno, so che non si sentirà la mia mancanza negli squallidi posti di lavoro dove ho tirato avanti, so che se volessi riconoscerei la strada che sto percorrendo ma la verità è che ormai mi sono smarrito dentro.

    Il sole sta iniziando a calare e la pioggia cade fina. Sto vagabondando da così tante ore che mi sto asciugando. Sulla mia testa sorvolano i prototipi di droni ambulanzieri, che battono le zone più marce e sperdute della città. Nel frattempo, ho maturato una decisione irrevocabile. Scavalco il guard rail, mi siedo sulla panchina e ammiro lo skyline che mi trovo di fronte. Non ci ero mai stato su questo altopiano, peccato averlo scoperto solo oggi, così, per caso. O forse non è un caso, forse c’è un motivo per cui questo panorama al tramonto sarà l’ultima cosa che vedrò. Suggestivo, ma
    non cambio idea. Afferro dalla tasca interna del cappotto la fiaschetta d’acciaio, ancora piena anche
    se l’ho riempita ieri sera, la poggio e mi spoglio completamente. Stappo il contenitore e mi rovescio
    addosso al corpo umido l’intero contenuto. In altri tempi avrei pianto per tale spreco di buon
    bourbon. Ora, invece, voglio solo sparire dalla faccia della terra. Frugo nei pantaloni fradici, gettati
    a terra, e trovo l'accendino, fedele e necessario compagno per i miei sigari. Con un solo netto e
    preciso movimento, lo sgrullo, sollevo il pollice, premo e innesco la combustione.

    Poi fiamme. Infine buio.









    UNA VITA IN UNA SCELTA





    Somalia, 2007

    Osman era tanto magro da sembrare filiforme, al punto che in molti, lungo la costa sabbiosa che costeggiava il villaggio, si domandavano come facesse a reggersi in piedi. Eppure, a dispetto delle apparenze, il ragazzo, poco più che ventenne, aveva una insospettabile forza nelle braccia, come dimostrava tutte le volte in cui riappariva sulla battigia, dopo una giornata trascorsa a pescare, trascinando a mani nude le proprie reti. Anche quel giorno, come sempre, Osman svuotò queste ultime nella cassetta che aveva montato su Dibi, il suo asinello, l’unico bene di un certo valore che il padre, morto anni prima, aveva lasciato a lui e alla madre. Sforzandosi di non pensare alla donna, il giovane si passò una mano sulla fronte, nel vano tentativo di detergersi dal sudore, quindi si voltò di nuovo verso il mare. In lontananza, nonostante la luce accecante del sole, era possibile distinguere le sagome di due enormi navi portacontainer, intente a navigare verso terre e genti che Usman aveva a malapena sentito nominare.

    “Andiamo, Dibi! Yah!” gridò infine il ragazzo, schiaffeggiando delicatamente la groppa dell’asino. Il villaggio, nient’altro che una manciata di capanne affacciate su uno spiazzo e divise da una strada sterrata, distava poche centinaia di metri dalla spiaggia ed era percorso dalla consueta, misera umanità in mezzo alla quale Usman era nato e cresciuto; uomini in abiti cenciosi che provavano a strappare alla terra qualcosa di commestibile, donne che andavano e tornavano dalla fonte con brocche appoggiate sulla testa e marmocchi scalzi che correvano in qua e in là, facendo un gran baccano e suscitando le stanche imprecazioni dei passanti. Al loro passaggio, tuttavia, Osman sorrideva, poiché, pur non avendo avuto la possibilità di studiare, abbinava un’ottima memoria a una notevole capacità di osservazione, entrambe qualità che gli consentivano di rivedere in quei ragazzini ciò che, fino a pochi anni prima, era stato lui stesso.

    Al mercato, come temeva, il risultato non troppo esaltante della mattinata di pesca venne ricompensato con un po’ di latte e con una manciata di legumi. Di fronte alla richiesta di essere pagato con soldi veri, il vecchio Mukhtar scosse la testa, allargò le braccia e disse soltanto:
    “Allah’u akbar!”.

    Sconsolato, Osman tornò alla sua capanna e, dopo aver legato Dibi a un palo di legno che lui stesso aveva piantato sul retro, entrò in casa ed esibì il magro bottino della giornata a sua madre. Quest’ultima, come al solito, era a letto. Ormai si alzava sempre più di rado, per colpa della malattia infame che l’aveva colpita all’improvviso, meno di due anni prima, ma, ciononostante, riusciva a non perdere mai il buonumore che l’aveva sempre contraddistinta.

    “Andrà meglio domani, Osman” disse la donna, sforzandosi di sorridere “Adesso mangia tranquillo, va bene?”.

    Il giovane annuì e, recatosi brevemente nell’unica altra stanza della capanna, che fungeva sia da soggiorno che da cucina, ne riemerse poco dopo con in mano una focaccia di sorgo.
    Ignorando le proteste della donna, che non voleva che pranzasse in una posizione scomoda, Osman si sedette accanto a lei sul letto e iniziò a mangiare, strappando, nel contempo, piccoli pezzi di focaccia con le mani.

    “Non ho fame” disse la madre, ma il figlio insistette: “Devi mangiare, mamma. Ti fa bene. Prova a mandarla giù con un po’ di latte”.

    Nel vederla deglutire a fatica un boccone microscopico, Osman sentì che gli occhi gli si riempivano di lacrime. Per quanto ancora potevano andare avanti così? La situazione stava peggiorando di giorno in giorno e, nella zona, non c’era alcun medico a cui chiedere aiuto. Una volta, un paio di settimane prima, un tizio di passaggio si era fermato presso il villaggio per un problema alla propria automobile; a giudicare dal suo aspetto e dal fatto che quest’ultima era guidata da un autista armato, Osman aveva intuito che il viaggiatore provenisse da una grande città e aveva provato a chiedergli informazioni, ma il risultato era stato sconsolante.
    “Mi dispiace, ragazzo” aveva detto l’uomo, mentre l’autista, a torso nudo, sostituiva una ruota sgonfia “ma anche a Mogadiscio tira una brutta aria, non si trova più una medicina a pagarla oro”. Deciso a tentare il tutto per tutto, il giovane si era allora rivolto al capo della corte islamica che governava su tutto il circondario, sperando che potesse dargli qualche consiglio, ma la risposta che aveva ottenuto da Hajii Mohamed, il mullah, non era andata oltre una generica esortazione a pregare Allah. Come leggendogli nel pensiero, sua madre disse:
    “Osman, ti prego, promettimi che non lo farai”.
    Osman distolse lo sguardo, mordendosi un labbro.
    “Tu non sei come quella gente. Sei buono”.
    Il ragazzo continuò a tacere.
    “Non voglio che tu faccia la fine di tuo padre”.
    “Adesso devo andare, mamma. Ci vediamo più tardi”.

    Dopo aver baciato velocemente la donna sulla fronte, Osman uscì all’aperto e inspirò profondamente, quindi iniziò a camminare verso il mare e, allo stesso tempo, tornò con la mente al giorno prima, quando, mentre tornava dalla solita mattinata di pesca, aveva visto che, sulla spiaggia, si era radunato un capannello di uomini di ogni età, tutti pescatori del suo villaggio. Incuriosito, il ragazzo si era avvicinato e aveva notato che i presenti pendevano dalle labbra di uno sconosciuto, un tizio vestito di nero e dalla pelle più bianca della loro. Parlava solo in arabo, eccezion fatta per i concetti più importanti, che sottolineava in un somalo dall’accento pesantissimo.

    “…credetemi, sarà una passeggiata!” stava dicendo l’uomo “Potete usare anche le vostre barche, mentre alle armi penseremo noi. Quelle navi sono indifese, non incontrerete nessuna resistenza. Un lavoro facile per un bel guadagno”.

    Ciò detto, il reclutatore aveva agitato davanti agli occhi dei pescatori una mazzetta verde scuro.
    “Per chi ci sta, sono duecento dollari americani a testa. Non dovete avere paura, quella che vi offro è solo giustizia. Non trovate anche voi che sia completamente sbagliato che laggiù, a pochi chilometri da qui, passino navi piene di tesori, diretti verso le case di persone che non sanno nemmeno che esistete, mentre voi siete condannati a stare su questa spiaggia per tutta la vita, combattendo per un tozzo di pane? Non ne avete abbastanza? Allah, grande e misericordioso, vi assisterà in questa impresa, se deciderete di intraprenderla”.

    Quasi tutti gli astanti avevano annuito, scambiandosi pacche entusiaste sulle spalle, mentre Osman, recuperato Dibi, aveva fatto ritorno a casa di gran carriera, confuso e spaventato. Solo a sera inoltrata aveva trovato il coraggio di parlarne con sua madre, la quale, con una veemenza insospettabile, vista la sua condizione, aveva fin da subito esternato una posizione ferma e rigida. Il giovane si accorse di essere arrivato di nuovo sulla spiaggia. All’orizzonte, come un pigro e indifferente mostro marino, era possibile osservare un’altra, gigantesca portacontainer. Osman la fissò a lungo, poi crollò sulle ginocchia e scoppiò a piangere.

     
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