Il calcio italiano sta per cambiare ...forse... e speriamo

Sempre grazie a Ultimo uomo

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    Maurizio Viscidi e la rivoluzione del calcio giovanile italiano
    Il coordinatore del settore giovanile è uno dei personaggi più influenti del calcio italiano.

    Non sapevo bene chi fosse Maurizio Viscidi. Non sapevo nemmeno quanto fosse influente per il calcio italiano. Poi, a maggio del 2019, mentre stavo realizzando una serie di interviste alla vigilia dell’Europeo Under-21 (tra cui alcune pubblicate qui) il suo nome è stato tirato fuori dall’allora allenatore Di Biagio, da Ambrosini, Mandragora ed altri componenti della spedizione. Gli uscivano frasi come “un progetto che Viscidi porta avanti da anni…”; oppure “facciamo riunioni settimanali noi dello staff e in più quelle mensili d’aggiornamento a Coverciano guidate da Viscidi…”; “abbiamo il mister, lo staff e Viscidi: quindi siamo in ottime mani…”.
    Lo citavano con spontaneità ponendolo al centro della loro esperienza in Nazionale, e così avevo tentato di fare qualche domanda anche a lui per poter inserire nel pezzo anche le sue parole. Ma è bastata una breve telefonata per capire che avrei dovuto incontrarlo di persona, perché la sua vicenda e il suo ruolo andavano raccontati in un pezzo completamente dedicato a loro.

    Attorno a lui, il silenzio

    Maurizio Viscidi è il coordinatore del settore giovanile FIGC o anche, come qualcun altro lo chiama, del Club Italia. Il suo compito è sovrintendere a tutte le sette Nazionali italiane, dall’Under-15 all’Under-21, programmando il ricambio generazionale azzurro con lo scopo di costruire la Nazionale maggiore dei prossimi anni. E quindi, sintetizzando con enfasi: Viscidi è uno dei personaggi più influenti del calcio italiano.
    Se si pensa a quanto lui sia influente – che è leggermente diverso dall’essere potenti – per il nostro pallone, è stupefacente pensare a quanto la sua figura resti avvolta nel silenzio. Ma se appare poco è solo perché non viene intervistato: «Non essendo stato un calciatore professionista, una mia intervista vende poche copie. E poi io mi occupo di giovani e di giovani si parla poco». Con gran parte dei giornalisti sente una scarsa affinità, e pensa sia una sensazione reciproca: «Spesso, nei primi anni sul ruolo, ricevevo telefonate dalle redazioni: mi chiedevano indiscrezioni. Se le avessi passate avrei goduto probabilmente di una stampa più attenta a me, più “amica”. Non mi interessa. Deontologicamente credo sia giusto per il mio incarico preservare le informazioni».
    Siamo a Bassano del Grappa, in casa sua. Sul tavolino del salotto noto qualche rivista sportiva e Viscidi intercetta il mio sguardo. «Non mi interessano i giornali che si occupano di polemiche e scoop senza approfondire. In edicola compro solo Uno-Due, qualche rivista tecnica e Revista Líbero, spagnola». Mi dice anche che preferisce raccontarsi all’Ultimo Uomo piuttosto che a un quotidiano da centinaia di migliaia di copie: «A me piace raccontare bene le cose, poterle spiegare davvero senza restare su discorsi superficiali».
    In salotto, dentro a una cornice d’argento, tiene anche una foto di lui da bambino. Avrà sette anni, otto al massimo, e tiene un pallone tra il palmo della mano e l’anca: «Vedi? Mi sono fatto fotografare senza la palla tra i piedi. Forse avevo già capito che da giocatore non avrei avuto un gran futuro». Da allenatore – questo sì, professionista – invece si è tolto più soddisfazioni: ha iniziato a ventiquattro anni nel settore giovanile del Padova, allenando anche Del Piero e vincendo uno scudetto Giovanissimi; poi nei primi anni Novanta è stato l’allenatore di Allievi e Primavera del Milan, a cavallo dei cicli Sacchi e Capello; poi ha lasciato i giovani per toccare duecento panchine in Serie C e quasi ottanta in B. «Non sono mai arrivato in Serie A per miei limiti caratteriali, credo».
    Ora invece lo hanno notato anche oltre alla Serie A, grazie al suo lavoro in azzurro. «Qualche anno fa l’Arsenal mi aveva proposto di diventare il capo della loro Academy. Le mie difficoltà con l’inglese hanno fatto arenare ogni discorso. Fa piacere che dall’estero inizino a studiare il modello che portiamo avanti al Club Italia. Anche altre federazioni mi hanno offerto un incarico. Merito della continuità di risultati che stiamo avendo con tutte le nostre squadre».
    Sembra una storia lineare, che parte dalla competenza tecnica e gestionale per arrivare a una serie di successi. Niente di più lontano dalla realtà. Prima di arrivare alle Nazionali e di essere una figura centrale per il presente e il futuro del calcio italiano, la carriera di Viscidi sembrava essersi fermata. Forse, addirittura, sembrava finita.

    La catastrofe di Johannesburg e l’inizio della rivoluzione

    Nel 2007 Viscidi era stato esonerato dal Modena, dopo sole 3 partite. Da allora, più nulla per tre anni. «Mi sono messo a studiare e a scrivere libri. È stato un periodo duro da cui ho imparato molto. Per mesi ho aspettato una chiamata che non arrivava mai. Ricordo che guardavo lo schermo nero del telefono per capire se fosse spento: mi sembrava impossibile che non suonasse mai. Lì ho capito che è facile venire dimenticati se le cose iniziano ad andare storte. Una lezione molto utile». Nell’estate del 2010, tre anni dopo l’ultima panchina, il telefono finalmente ha squillato di nuovo. Lo schermo si è illuminato ed è comparso il nome Arrigo. Quell’Arrigo.
    La Nazionale italiana era appena stata eliminata dal Mondiale in Sudafrica, a cui era arrivata da detentrice del titolo tornando a casa umiliata. «La peggiore Italia degli ultimi cinquant’anni o forse di sempre, esce meritatamente dal Mondiale: fine di una generazione e di un’illusione», aveva scritto Crosetti su La Repubblica il giorno dopo il 2 a 3 con la Slovacchia, ultima triste partita del girone. Demetrio Albertini all’epoca era il vicepresidente FIGC e di fronte all’evidenza di un gruppo che quattro anni dopo il 2006 non aveva trovato un sostanziale ricambio generazionale, voleva porre le fondamenta per un nuovo corso del calcio azzurro. Aveva appena scelto Roberto Baggio come capo del Settore Tecnico – «È durato poco. Baggio è un eccezionale ambasciatore del calcio, quel ruolo però richiedeva altre caratteristiche», dice Viscidi – e Arrigo Sacchi come coordinatore di tutte le Nazionali giovanili.
    E quando si è trattato di scegliere il braccio destro dell’ex CT, Albertini ha suggerito il nome di Viscidi. Perché mai pensare a un allenatore di Serie B, disoccupato da tre anni, per rifondare il sistema organizzativo e formativo su cui la Federazione avrebbe costruito il suo stesso futuro?
    «Ho vissuto a Milanello tra il ’91 e il ’94. Allora c’era l’abitudine della partitella del giovedì tra la prima squadra e la Primavera. Albertini si ricordava di come giocava la mia squadra in quei test di metà settimana e mi ha proposto ad Arrigo». E se Sacchi ha accettato non doveva avere ricordi così tanto differenti.
    Quindi primi passi di Viscidi in Federazione sono stati da vice del più ideologico allenatore italiano del novecento, nella più ideologica delle missioni: fregarsene o quasi dei risultati e dedicarsi esclusivamente a capire come valorizzare le nuove classi di calciatori italiani. E dopo averlo capito, metterlo in pratica.
    «Ci siamo resi conto molto presto che non avremmo dovuto solo organizzare. Serviva anche smentire un generale senso di sfiducia nella meritocrazia con cui venivano gestite le convocazioni. Si diceva andassero in Nazionale i raccomandati, i ragazzi seguiti da procuratori importanti. Avremmo dovuto ricostruire anche una nuova credibilità». La scarsa abitudine a un approccio meritocratico, o quantomeno analitico delle capacità dei ragazzi, aveva alcune prove tangibili: «Al nostro arrivo non abbiamo trovato una sola scheda giocatore. Nessuno strumento per tenere traccia delle relazioni degli osservatori. L’avevamo trovato assurdo».
    Il primo anno è stato dedicato quasi interamente a capire come affrontare il lavoro, dato che all’arrivo di Sacchi e Viscidi tutti gli staff delle Nazionali giovanili erano già stati confermati; ma dall’estate 2011 è cominciata la loro rivoluzione. «Nel corso dell’anno molti allenatori si erano irrigiditi. Non tutti digerivano che fossimo arrivati a scombinare prassi immutate da decenni. Avevamo visioni profondamente differenti dalle loro su come lavorare con i giovani e dell’obiettivo sul lungo periodo del Club Italia. Così abbiamo deciso di cambiare sei staff su sette».

    La religione laica di Viscidi

    Viscidi e le sue parole sono materiali affascinanti anche per il loro anacronismo. Spesso sembra parlare pensando a cosa succederà da qui a dieci anni. Esempio: «Quando incontro Boban lui gongola parlando della Croazia vicecampione del mondo. Ma doveva gioire dieci anni fa, doveva essere felice quando Modric, Rakitic, Mandzukic e gli altri avevano la carriera davanti. Oggi il calcio croato ha meno probabilità di confermarsi».
    Viscidi non sembra parlare mai per semplici opinioni personali, ma sempre sulla base dei suoi studi e delle sue analisi. Per supportare la sua lettura sull’avvenire del calcio croato, prende un paio di stampe da una cartellina: «Ti faccio vedere il ranking delle Nazionali U-19 europee. Viene calcolato sulla base dei risultati degli ultimi quattro anni per dare valore alla continuità piuttosto che al singolo exploit. Facevamo l’esempio della Croazia? Guarda, è 14.esima. Ecco perché Boban non deve essere felice oggi. Perché senza un ricambio generazionale all’altezza, dati alla mano, il futuro per loro non potrà essere così roseo».
    Il rapporto logico tra premessa e risultato per lui è solare. Ecco perché non lo ha sconvolto l’esclusione dell’Italia dal Mondiale in Russia. «Siamo rimasti fuori dal Mondiale Under-20 per diciotto anni tra il 1987 e il 2005: prima o poi i nodi sarebbero arrivati al pettine. Stupirsene solo ora è sciocco. Come un genitore che ignora le bocciature del figlio a elementari, medie, superiori e poi non si spiega come mai a trent’anni non sia un fisico nucleare. Avrebbe dovuto aprire gli occhi prima. Con quelle pagelle non poteva aspettarsi qualcosa di diverso». La religione laica di Viscidi prevede il dogma della corrispondenza diretta tra monitoraggio di ciò che accade oggi e predizioni attendibili su quel che accadrà domani.

    Cos’è il TIPS

    Quando Ambrosini, Di Biagio e gli altri parlavano di Viscidi, tendevano alla personificazione del modello adottato dalle giovanili azzurre. Lui invece tiene molto alla redistribuzione del merito su tutto lo staff. Mi mostra una foto di gruppo: sono in quarantotto. «Quelli con la maglia grigia fanno parte dello scouting, le maglie azzurre invece sono i membri dello staff che lavorano sul campo».
    Coordinare un gruppo così grande di persone, che spesso lavorano in luoghi distanti tra loro, richiede la condivisione non solo di progetti e obiettivi, ma anche di un linguaggio. Strumenti e vocabolario che rendano integrabili le informazioni, che le codifichino. «Capitava spesso che le relazioni degli osservatori fossero interpretabili. Il problema era che si reggevano su un approccio descrittivo. Due giocatori definiti “interessanti”, una volta convocati dimostravano due realtà opposte. Il ragazzo non all’altezza era stato definito interessante perché aveva “qualche caratteristica degna di interesse” senza tuttavia essere ancora pronto. Il ragazzo già in grado di fare la differenza era stato definito così perché effettivamente “meritevole di molto interesse”. Ho capito che continuare a basare le relazioni solamente sulle parole non avrebbe funzionato».
    Una buona alternativa alle parole sono i numeri e i colori. «In Olanda e in Svizzera usavano già da anni un sistema di valutazione chiamato TIPS, acronimo delle traduzioni inglesi dei quattro criteri su cui è basato: tecnica, intelligenza calcistica, personalità, componente atletica (Technique, Insight, Personality and Speed ndr). Noi lo abbiamo adottato aggiungendo un’altra S alla fine. La struttura fisica».
    Gli chiedo se sia realistico ambire a un metodo di valutazione che possa superare del tutto la soggettività dell’osservatore. «La soggettività è fisiologica. Ciò che possiamo fare è tenerla sotto controllo condividendo griglie di valori».
    A ognuna delle cinque caratteristiche del TIPS va attribuito un valore da 1 a 10. Oltre a questo, al calciatore visionato va attribuito anche un colore: rosso per chi probabilmente non sarà più seguito, giallo per chi è ancora acerbo nonostante le potenzialità, celeste per chi è quasi pronto per la maglia azzurra e azzurro per chi è già convocabile.
    «La cosa interessante è vedere il progresso, positivo o negativo che sia, delle valutazioni nell’arco degli anni. Aspettami qui, voglio farti capire meglio». Esce dalla stanza e quando ritorna ha il suo Mac in mano. Mi fa vedere come è strutturato il loro database: «Prendiamo per esempio Sebastiano Esposito, il ragazzo dell’Inter che ha fatto il precampionato con Conte quest’estate (e che poi, dopo la nostra intervista, avrebbe esordito direttamente in Champions League ndr). Vedi? Qui abbiamo le date di tutte le volte in cui è stato visionato e qui il nome di chi ha scritto la relazione: guarda come sono cambiati i colori nel corso degli anni. Per un po’ di tempo è stato celeste, poi il totale della valutazione numerica si è alzato e il colore è diventato azzurro. Ci siamo accorti che, statisticamente, quando un giocatore supera i 35 punti TIPS è in Nazionale».
    Arrivo a capire che il “metodo” si basa fondamentalmente sul collocamento di ogni riscontro di squadra e del singolo dentro a un piano cartesiano che ha il tempo sull’asse orizzontale e il risultato sull’asse verticale. «Le nostre vittorie più grandi sono veder arrivare nostri ragazzi in Nazionale A. Gente come Barella, Romagnoli, Donnarumma, entrati dall’Under-15. O Insigne dall’Under-17. O Chiesa dall’Under-18. La Federazione destina molti soldi al Club Italia. Noi abbiamo il compito di rendere quelle somme sempre un investimento e mai una spesa».
    Viscidi è convinto che l’investimento frutterà: «Ti dico la stessa cosa che ho detto a Mancini: il momento è duro, ma in futuro ci divertiremo».

    Il morso di Suárez e il rischio che tutto fosse finito

    L’idillio metodologico e di risultati ha rischiato di interrompersi tra un morso in mondovisione e un gol di Diego Godín.
    Nel 2014, il giorno dell’eliminazione dell’Italia dai Mondiali in Brasile, dopo che Prandelli si era già dimesso in diretta tv nella conferenza stampa di Natal, si sono dimessi anche il Presidente FIGC Abete e il suo vice Albertini. Se ne andava anche Sacchi, che già un anno prima aveva comunicato che avrebbe lasciato l’incarico per motivi anagrafici.
    «All’improvviso sono mancate le tre figure che avevano voluto e sostenuto la nostra rivoluzione. Sono rimasto solo. Non l’ho mai detto prima, ma in quel momento la Federazione, in attesa di capire chi sarebbe stato il nuovo Presidente e cosa ne avrebbe fatto del nostro progetto, ci ha messi in stand-by. Dopo quattro anni e dopo aver visto arrivare i primi risultati del nostro lavoro, è stata una mazzata. Ho chiesto a tutti quanti di aspettare nonostante fosse un rischio. Se a settembre davvero ci avessero lasciato a casa sarebbe stato impossibile trovare un altro lavoro, dato che in quel periodo gli staff sono già formati».
    L’elezione di Tavecchio aveva preceduto l’incarico da CT ad Antonio Conte. All’ex allenatore della Juventus, il neo Presidente aveva affidato anche il compito di analizzare il progetto di Sacchi e Viscidi per capire se valesse la pena di essere portato avanti. La spada di Damocle sulla testa di Viscidi e della cinquantina di persone al lavoro nel Club Italia era appesa al giudizio di Conte.
    «Per fortuna in lui ho trovato una persona di grande onestà intellettuale. Capì il valore di ciò che stavamo costruendo e la complessità del progetto. Quando Tavecchio lo nominò Coordinatore ad interim dopo Sacchi, Antonio capì subito che non avrebbe potuto ricoprire il ruolo sovrapponendolo a quello di CT. Così mi diede piena fiducia. Anche se formalmente ero ancora il vice, è stato da quel momento che ho iniziato a fare davvero io il Coordinatore».
    La carica ufficiale è arrivata nel 2016. Nel 2018, invece, è arrivato un altro esame, un altro giudizio sul progetto del Club Italia: stavolta toccava ad Alessandro Costacurta, neo vicepresidente con deleghe tecniche per il Commissario FIGC Fabbricini. Un altro sì: «Mi fa molto piacere che ogni volta in cui un uomo di calcio ha dovuto esprimersi sulla bontà dell’approccio e dei risultati della nostra gestione non abbia avuto dubbi sull’importanza di farci proseguire».

    Meglio vincere o meglio costruire?

    Non molto distante dal tavolino del salotto, quello dove tiene le sue riviste sportive, sopra una mensola ha disposto in ordine cronologico le medaglie vinte in azzurro. La prima è del 2012, l’ultima del 2019. Sono sette e sono di ogni metallo tranne l’oro. «Vincere un torneo sarebbe il coronamento degli sforzi di molte persone in tutti questi anni. Ma quando lavori con i giovani il trofeo è secondario rispetto alla costruzione di valore. E in questo senso la nostra continuità di risultati ha un valore enorme. Non alleni i giovani per fare carriera, non li alleni per il risultato. Li alleni per alzare il loro livello e mantenerlo costante».
    Maurizio Viscidi considera il mestiere di allenatore di settore giovanile una professione molto diversa da quella di allenatore di una prima squadra. Un modo di pensare più portato a trasferire che a ricevere. «Prima che un allenatore devi essere un formatore. Ti ricordi l’intervista tv a Nicolato dopo la semifinale ai Mondiali Under-20? Nel recupero ci hanno annullato un gol. Era regolare e ci avrebbe portati ai supplementari. Invece in finale è andata l’Ucraina. Gli hanno chiesto se avessimo subito un’ingiustizia. Ha risposto di no, che era solo un errore. Un allenatore di giovani deve saper insegnare anche come ci si comporta. Anche a essere buoni cittadini oltre che buoni calciatori».
    Dopo le dimissioni di Di Biagio da selezionatore dell’Under 21, Viscidi ha scelto proprio Nicolato. La forma mentis di Viscidi e Nicolato rispecchia quella del Club Italia in questi quasi dieci anni. «Abbiamo iniziato a fare un gioco con le nostre squadre. Quando arriviamo in uno stadio facciamo una foto agli spogliatoi prima di entrarci e ne facciamo un’altra quando li lasciamo. Le due immagini devono coincidere. Dobbiamo essere rispettosi dei luoghi e delle persone che ci ospitano. Formare è anche questo».
    Viscidi e i suoi allenatori hanno anche istituito la regola del saluto a fine partita ad avversari, arbitri e pubblico. «Non esiste che un ragazzo dopo una sconfitta abbandoni il campo a testa bassa, magari imprecando. Dobbiamo insegnare ai ragazzi che vanno salutati tutti e non solo le curve. Altrimenti continueremo a essere ostaggio degli ultras ancora per altre generazioni».
    L’investimento sul cittadino di domani, oltre che sul calciatore, è favorito anche dal clima che si respira in occasione dei tornei internazionali. «Fino all’Under-19 le squadre condividono gli stessi hotel. Ci si incontra, si scambiano esperienze. Occasioni che fanno crescere tantissimo sia noi sia i ragazzi». Mi spiega che nell’ambiente è generalmente condivisa una cultura della prestazione più che del risultato. Cultura della prestazione che per lui diventa anche del merito, come testimonia la sua scelta purtroppo ancora eclatante di affidare una Nazionale maschile a una allenatrice. «Da un paio d’anni Patrizia Panico è a capo della nostra Under-15. A quanto ne so siamo l’unica Federazione in Europa».

    Allenare gli allenatori

    Patrizia Panico è uno dei sette CT individuati da Viscidi e approvati dalla presidenza federale. Il participio passato individuati racchiude la responsabilità che sente verso di loro: «Mi sento un allenatore come loro. So di averli proposti io e per questo mi pongo da supporto e mai da giudice. Anche se la conferma dovresti chiederla a loro, credo che mi stimino perché sono sempre al loro fianco senza invadere i loro spazi. Non entro mai in campo o nello spogliatoio, sono luoghi sacri. Se sento di dover parlare alla squadra scelgo tempi e luoghi diversi».
    Viscidi è un allenatore di allenatori. Come li sceglie? «Gli allenatori di giovani sono un problema: quelli bravi vogliono fare carriera e non pensano abbastanza a donare formazione; quelli scarsi si accontentano e non migliorano i loro giocatori». Tra i risultati di questi anni non ci sono solo i giocatori portati nella Nazionale maggiore, ma anche allenatori scovati ai margini e avviati a carriere più importanti. «Molti dei nostri allenatori arrivano da panchine di Serie D o Eccellenza. Una volta la carriera nelle Nazionali era un punto d’arrivo, ora invece è un trampolino. Il segno che lavoriamo bene e innoviamo sta anche nell’appetibilità dei nostri tecnici. Ora quando una società deve scegliere un allenatore per i suoi giovani guarda prima di tutto da noi. E non solo per i giovani. Antonio Conte, ad esempio, negli anni a Coverciano ha conosciuto Paolo Vanoli quando guidava l’Under-19. Gli è piaciuto così tanto che se l’è portato come assistente prima al Chelsea e ora all’Inter».
    Secondo Viscidi, scegliere un allenatore è molto più difficile che scegliere un giocatore. «Lo scouting è sempre un’osservazione limitata. Prova però a pensare che se in partita un giocatore puoi vederlo giocare, quindi fare il suo lavoro, un allenatore in partita puoi vederlo svolgere solo una parte del suo ruolo. Come si interfaccia con la dirigenza? Come prepara un allenamento? Come analizza una partita? Come parla alla squadra? Come gestisce lo spogliatoio? Sono tutti aspetti che rimangono invisibili. Che non puoi nemmeno parzialmente osservare. Su quelli vai alla cieca».
    Quindi come fare? «Con un inserimento graduale. Entrano nei nostri staff da osservatori o da collaboratori. Già così si riesce a valutare l’aspetto umano e tecnico, e quanto sono affini ai nostri linguaggi e metodi. Poi alcuni avanzano assumendo ruoli di maggiore responsabilità, altri si specializzano, altri ancora vengono sostituiti».
    Una volta scelti gli allenatori, viene il metodo. Al centro di esso per Viscidi ci sono i princìpi di gioco, non gli schemi. «Ci sono due modi per insegnarti come arrivare da qui, da casa mia, al centro di Bassano. Uno è dirti di andare alla rotonda, dare la precedenza, fermarti allo stop, poi prendere la seconda a sinistra e la prima a destra. L’altro modo è insegnarti a leggere i segnali stradali e darti una mappa della città. Nel primo caso ti sto insegnando uno schema; nel secondo un insieme di princìpi».
    L’obiettivo non è formare la capacità mnemonica dei ragazzi, bensì quella cognitiva. Non devono ripetere uno spartito rigido, devono avere gli strumenti per interpretare in un determinato modo le differenti condizioni del gioco.
    «In Nazionale siamo costretti a farlo perché abbiamo troppo poco tempo per insegnare schemi e perché ognuno arriva da squadre con sistemi differenti. In ogni caso, quella di preferire i princìpi, collettivi e individuali che siano, è una tendenza che sta prendendo il calcio in generale».
    L’architrave dei princìpi insegnati al Club Italia ruota attorno ad un altro acronimo, il CARP: Costruzione, Ampiezza, Rifinitura, Profondità. «Un principio è trasversale ai sistemi di gioco. Prendiamo la rifinitura. Noi vogliamo che tra le linee di centrocampo e difesa avversarie ci sia sempre almeno un uomo, al di là del fatto che il sistema prevede o meno trequartisti. Un altro principio: vogliamo che attorno al portatore di palla si crei sempre un rombo di quattro compagni come opzioni di gioco, indipendentemente dal sistema e dal ruolo di quei quattro. Lo schema non porta a ragionare. Noi vogliamo formare giocatori pensanti, in grado di risolvere situazioni».
    Giovani: un problema italiano
    Il giornalismo ha alcune regole non scritte: una prevede che esistano dei temi che ciclicamente vanno portati all’attenzione del pubblico come questioni della massima priorità, temi trattati sempre allo stesso modo, sempre nello stesso momento. La canicola estiva è l’esempio perfetto: ogni anno a giugno si parla del caldo eccezionale come se nessuno ne avesse mai sentito parlare prima. Il problema dei giovani sta al giornalismo sportivo italiano come la canicola a quello generalista, è un tema sempre pronto nei cassetti delle redazioni. Si può dire che non giocano, che non hanno spazio, o magari che non sono bravi. L’ultima occasione in cui l’argomento è uscito alla ribalta è stata l’eliminazione dell’Italia Under-21 dall’Europeo della scorsa estate.
    La domanda dal proverbiale milione di dollari è sempre la stessa: i giovani in Italia sono meno protagonisti rispetto ad altri paesi perché non sono all’altezza oppure perché non viene loro concesso lo spazio che meriterebbero e che li farebbe migliorare? La risposta di Viscidi è molto più articolata di quelle che si sentono sempre. Prende tre macro questioni e gesticola come se le stesse appoggiando rispettivamente sul suo pollice, il suo indice e il suo medio.
    «La prima ragione io la chiamo maturazione biologico-sociale. Se prendo un quindicenne turco e un quindicenne italiano, il primo è mediamente più avanti a livello di intuizioni, di personalità. Sono condizioni generate dal tessuto sociale in cui nasci e che ti offre più o meno difficoltà da superare nel quotidiano».
    Le altre due ragioni sono una tecnica e l’altra di cultura sportiva. «I nostri giovani, fin da molto piccoli, vengono fatti lavorare troppo sulla tattica e troppo poco sulla tecnica. Siamo andati a vedere i dati. Siamo tra i migliori a tenere la linea difensiva e tra i peggiori nel fondamentale controllo-passaggio. La tecnica individuale è la base su cui edificare la tattica. In Italia tendiamo invece a invertire quell’ordine».
    La motivazione culturale, invece, è semplice: «Finché un allenatore continuerà a essere giudicato per il risultato e non per il progetto sarà sempre difficile vederlo prendersi il rischio di far giocare un giovane tenendo fuori chi è più esperto».
    Sembra che il problema della lenta maturazione dei giovani non sia un fatto solo italiano ma, per certi versi, anche europeo. «In tutto il mondo le Nazionali giovanili si fermano all’Under-20. Il Sub-20, come lo chiamano in Sud America, è seguito ovunque. Il gran finale prima del salto tra i grandi. Invece in Europa esiste anche l’Under-21 che alla fine di ogni biennio porta a giocarci ancora dei 23enni. Calcisticamente ha poco senso».
    Allora perché non adeguarsi agli altri continenti ed entrare prima nell’età adulta? «Ne abbiamo parlato di recente con la UEFA. La risposta è stata che l’Under-21 è un brand, che l’evento dell’Europeo di categoria vale parecchio a livello di immagine. Gli sponsor lo sostengono e si vendono molti biglietti. Per loro, oggi, sarebbe un danno abolirlo».

    Creare il “metodo Italia”

    Proprio a pochi giorni dall’inizio dell’Europeo U-21, Di Biagio aveva parlato di “metodo” per descrivere il progetto di cui faceva parte la sua Nazionale assieme alle altre squadre del Club Italia. Il metodo ora sta assumendo un’importanza tale da sentire stretti i confini federali.
    «Noi ci sentiamo valorizzatori dei calciatori, I loro formatori restano i club e va sempre ricordato. Noi li abbiamo mediamente tre giorni al mese, gli altri ventotto giorni sono gestiti dalle società». Questa è una premessa ai progetti per il medio e lungo periodo: «Vogliamo favorire lo sviluppo di un nuovo approccio condiviso da tutto il sistema italiano. Un approccio che parta da noi e venga sposato anche dai club. Non vogliamo imporre niente, credo solo che come Federazione possiamo tracciare una linea da seguire».
    A metà di questa intervista siamo stati interrotti dalla vibrazione del suo telefono: era il CT dell’Under-17 che lo chiamava per avvisarlo che un ragazzo in ritiro aveva accusato una contrattura. Dopo averlo visitato avevano capito che doveva essere rimandato a casa. Una volta riattaccato, Viscidi mi ha spiegato che quella telefonata era una situazione tipica delle sue giornate e che portava a due necessità immediate.
    La prima era trovare un sostituto da mandare in ritiro; la seconda era avvisare subito la società del giocatore infortunato: «Tenere i rapporti con i club è un aspetto fondamentale. Quando siamo arrivati nel 2010 con Sacchi, la situazione era di totale e reciproca rigidità. I club si sentivano usati, la Federazione si sentiva mal sopportata. Purtroppo non venivano curate le comunicazioni. Ora la prima cosa che faccio è avvisare la Juventus che il loro ragazzo sta per tornare a casa».
    Viscidi ha parlato con uno dei responsabili del settore giovanile bianconero con il tono cordiale e informale che puoi sentire tra due colleghi, tra persone abituate a collaborare. Gli ha detto che era solo una contrattura e si è premurato di essere aggiornato sull’esito degli ulteriori esami che il ragazzo avrebbe fatto a Torino. «Se te lo stai chiedendo ti rispondo di no. Prima non si comunicava».
    L’idea del “metodo Italia” si inserisce in questa tendenza alla fiducia reciproca. Alla costruzione di risultati considerati patrimonio comune. «Vogliamo essere più presenti nei centri tecnici delle società per divulgare le nostre metodologie. Troppo spesso nei settori giovanili si scopiazzano processi applicati all’allenamento degli adulti. Non funziona. Rischiano di creare danni sul lungo periodo. Entreremo in punta di piedi, mostrando come lavoriamo e quali benefici si possono trarre. Se hai metodi interessanti e persone credibili, e li abbiamo entrambi, allora puoi essere seguito».
    La storia della rivoluzione concettuale che Viscidi ha visto nascere e che ora guida è atipica per il nostro sistema Paese. Ha resistito a quattro diverse Presidenze federali, ognuna con una differente linea politica; ha trovato importanti sostenitori nonostante abbia rivoltato uno status quo che poteva far comodo a molti. È stata sostenuto nonostante la sua fosse una rivoluzione “da tecnico”, che veniva dal basso, senza il passato da vecchia gloria. Il metodo Italia è ancora alla fase embrionale ma la rivoluzione da cui nasce può aver già seminato molto per il futuro dei nostri colori. E chissà, magari sarà un esempio da seguire non solo nel calcio.

    Diego Guido
     
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